di Francesco Miscioscia – Sono entrato a far parte delle associazioni datoriali e professionali nel 1989, ho assistito a tutti i cambiamenti epocali che il mondo sociale e politico abbia potuto subire, ho visto le attività e le professioni che cambiavano, sono stato protagonista della lotta aperta tra Cnel e professioni non riconosciute per il riconoscimento giuridico, ho avuto ruoli primari all’interno delle associazioni lavorando sempre però per il raggiungimento degli obiettivi comuni.
Mentre ripercorro come un flashback questi 25 anni, vedo, con chiarezza alla luce dei risultati ottenuti, che le associazioni di categoria si sono assimiliate alla peggiore classe politica che hanno sempre frequentato.
Il clima di sfiducia che ha colpito il mondo politico ha insidiato anche le leadership associative, che da tempo sembrano essere teste senza corpo. L’individualismo e il personalismo, che hanno regnato in questi ultimi decenni nella provincia di Latina, hanno completamente esautorato di significato, il ruolo e il termine delle associazioni.
Oggi possiamo dire con certezza, alla luce di quanto sta accadendo, che i tempi sono maturi per ridisegnare il mondo delle associazioni di categoria. È da molto che si parla di questo cambiamento, ma a nessuno conviene cambiare, meglio rimanere nel nebbioso e nell’incerto per assicurarsi la permanenza nel galleggiamento del protagonismo personale. La crisi politica ed economica può diventare un ottimo stimolo alla vera funzione delle associazioni: creare le condizioni economiche perché si possa mettere gli associati nella condizione di fare business e crescere culturalmente e professionalmente sia nel mercato domestico che in quello estero.
Da molti anni il panorama politico/sociale/professionale ha cambiato pelle varie volte, senza mai focalizzare l’attenzione sull’innovazione e sul cambiamento, sulla ricerca e sullo sviluppo né tanto meno sull’internazionalizzazione; temi tanto dibattuti ma sui quali non sono mai state date risposte concrete, perché affrontati in modo vago.
Quali sono le caratteristiche comuni delle organizzazioni innovative? Non esistono modelli precostituiti, tuttavia c’è un tratto comune: le organizzazioni che innovano hanno una elevata tolleranza per l’errore. Per innovare occorre sperimentare ed esplorare, il che implica commettere errori. Le organizzazioni tradizionali mettono in campo molti meccanismi per evitare di innovare e per eliminare la meritocrazia. Gli innovatori, al contrario, incoraggiano la sperimentazione e tollerano l’errore. Come si usa dire comunemente, è però importante “sbagliare velocemente”: provare, apprendere dai propri errori e correggere la rotta in tempi brevissimi, in modo da consentire all’organizzazione di riprendere efficienza.
Ma tutto questo accade nelle nostre organizzazioni associative?
Certo che no. Questi temi sono stati e vengono periodicamente dibattuti in vari convegni; illustri relatori pongono sul tavolo della discussione il cambiamento e l’innovazione ai quali dobbiamo guardare, ma se a questi tavoli non vengono invitate le associazioni vuol dire che si deve lavorare prima di tutto sul proprio brand e poi rafforzare la self-reputation.
In tutto questo un competente management contribuisce ad allungare il tempo di vita di un’associazione o, al contrario, a renderle la vita tortuosa facendo delle scelte che sono immorali e scomposte. A questo aggiungiamo anche che l’improvvisazione di chi dirige un’associazione, senza avere una corretta “cultura manageriale”, deteriora un patrimonio di associati, ricchezza inestimabile per la sopravvivenza di un’organizzazione professionale.
Il “merito”, tanto decantato in tutti questi anni, è sparito dal vocabolario delle associazioni. Solo Confindustria rispetta parametri di merito, ma di altra natura legati e riconducibili alla crescita aziendale, anche se neppure questa rimane immune dal morbo dei personalismi.
Quindi cosa fare?
Tracciare una “Rotta”, il che vuol dire porsi domande, valutare alternative, cercare nuove soluzioni per affrontare il cambiamento.
Chi si chiede allora:
“L’uomo giusto al posto giusto” o “l’uomo giusto fa il posto giusto”? In questo particolare periodo storico del nostro Paese, mai la seconda ipotesi fu quella più “giusta”.
Penso che alla base di una buona selezione ci sia la ricerca di un rapporto di collaborazione e condivisione: il processo con cui si arriva alla scelta dell’una o dell’altra persona si fonda sulla conoscenza, elemento indispensabile della “cultura” specifica esistente in “quella” organizzazione e della sua corrispondenza nella cultura del candidato.
Il mio approccio è di tipo “antropologico”, fondato cioè sugli insiemi di caratteristiche professionali, motivazionali, esistenziali (o valoriali), variamente mixati a costituire per ciascuna organizzazione quella propria specifica composizione che consente la collaborazione.
È il momento dell’assunzione di responsabilità che non termina mai, anzi, apre una nuova fase di osservazioni reciproche e di attese che continuamente cambiano.
Se si vuole il vero cambiamento occorrono persone di buona e comprovata capacità che possono mettere insieme tutte le anime del mondo associativo. Se invece si vuole cambiare perché tutto resti come sempre, vedremo ogni giorno associati che abbandoneranno le associazioni perché non riconosceranno in esse il cambiamento e l’innovazione e neppure il contributo delle nuove generazioni che sanno quello che vogliono e sanno come ottenerlo e dove andarlo a cercare. Così come sono strutturate le associazioni di categoria nella provincia pontina non funzionano, perché sono utili a pochi e danneggiano tutti gli altri.
Meditate Presidenti, meditate!