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Il campo profughi cambia il volto della città ma non la sua ospitalità

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L'area dell'ex campo profughi di Latina dove oggi sorge l'Università (Foto di Tonino Mirabella)

C’è una storia dove si intrecciano volti, sofferenze, culture e tradizioni che a Latina è spesso dimenticata.

E’ quella di una città ospitale che nella scoperta dell’altro, del diverso da sè, per provenienza, radici e costumi, ha avuto la possibilità di scoprire, e forse, riscoprire se stessa.

E’ quella del campo profughi “Rossi Longhi” di Latina.

Qui, lì dove oggi sorge la sede dell’università, dietro l’ato muro bianco c’erano quei migranti che arrivavano in Italia con le valigie piene di sogni e le scarpi rese pesanti da un viaggio segnato dall’esigenza di abbandonare la propria casa e la propria terra devastate dalla rivoluzione, dalla povertà e dalle persecuzioni.

Una storia lunghissima, durata quasi quaranta anni a partire dal 1957, quella del campo profughi di Latina, spesso sospesa tra dimenticanza e poca capacità di tramandare parti fondamentali della storia che hanno reso non tanto la città quanto i cittadini.

All’interno della struttura, che fu chiusa a seguito della caduta del Muro di Berlino nel 1989, vennero ospitati circa 80mila profughi dell’Europa Orientale poi dislocati in altri Paesi.

Intere generazioni guardarono il campo profughi prima e quello che per lungo tempo restò uno stabile con annessi giardini, con sospetto e diffidenza anche se la convivenza con molti di questi profughi non aveva creato mai grandi problemi nè sotto il profilo della sicurezza nè, tanto meno, sotto quello della integrazione.

Pezzi di un puzzle condannati all’oblio e che, spesso, dovrebbero essere raccontati per riscoprire come Latina sia stata e possa essere ancora la culla dell’ospitalità.

Perchè in fondo Latina e i suoi cittadini sono figli di una migrazione, quella dei contadini e delle famiglie provenienti dal nord Italia che alla bonifica in poi hanno costruito questa città.

 

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