Chiedi una dichiarazione? Ti rimandano ad un post su Facebook; chiedi un comunicato? Te lo mandano su whatsapp; chiedi una intervista? La rilasciano come intervento sui propri profili social.
A nulla è servito il blackout dei “canali Zuckerberg”, che ha dimostrato quanto in realtà fossero importanti le testate giornalistiche, on line e non. I giornalisti, infatti, soprattutto quelli di lungo corso, non si sono persi d’animo e hanno continuato, anzi, sarebbe meglio dire “ripreso” con il proprio lavoro di megafoni della società.
Un ruolo sostituito dai social network, perché? Semplicemente perché, a differenza dei commenti ad un articolo su una testata on line, questi permettono la crescita della fama personale attraverso l’interazione.
Fama che si traduce poi in tanti soldini che finiscono solo in una tasca: quella del bravo ex studentello di Harvard. Anche le testate giornalistiche oggi, purtroppo, vengono considerate più o meno importanti in base al seguito che hanno sui social. A scapito, ovviamente, degli introiti pubblicitari su cui si regge la maggioranza dei siti (veri) informativi.
Si tiene conto così tanto dei social network che in molti hanno creduto fosse andato in down l’intera galassia web. Senza Facebook, Instagram e Whatsapp qualcuno si è sentito completamente isolato dimenticando tutti gli altri mezzi di comunicazione come: siti internet di informazione, Twitter, Telegram, SMS e telefonate (di questi due qualcuno si chiederà cosa sono!).
E’ recente la denuncia di una ex dipendente di Zuckerberg che ha portato allo scoperto il marcio dei social network. Cose che già si sapevano in realtà, ma vallo a spiegare ai leoni da tastiera, paladini della libertà di espressione, che sono solo dei burattini.
L’ingegnere informatico Frances Haugen, lavorava in Facebook convinta che avesse del potenziale per tirare fuori il meglio dagli individui. Avendo lavorato già in altre grandi aziende tecnologiche che gestiscono diversi tipi di social network, è stata in grado di confrontare il modo in cui ciascuna di esse si avvicina e affronta le diverse sfide. Ha così potuto valutare che le scelte fatte dalla leadership di Facebook, che ha messo i profitti prima delle persone, sono un problema enorme che possono danneggiare i bambini, alimentare la divisione, indebolire democrazia e fare tanti altri danni alla società.
Ne sono la prova una serie di post con video o immagini la cui pubblicazione è preclusa per legge a giornalisti e testate. Ci sarà un motivo, no?
La cosa più intelligente, da veri paladini della libertà di espressione, sarebbe quella di lasciare che i social restino ciò per cui sono nati: un mezzo per socializzare (non il contrario) e mantenere i contatti, forse anche una vetrina certo, ma non sono affatto i mezzi di informazione che sono diventati. Il citizen journalism (giornalismo partecipativo) richiede controllo per non ledere la dignità o la sensibilità di qualcuno, come d’obbligo per i professionisti dell’informazione: esperti, con una gavetta e una deontologia alle spalle, che non passano mai di moda e che sono lì anche quando le amministrazioni e i governi cambiano.
Dunque, torniamo a tenere conto dell’importanza di un addetto stampa, di un redattore, di una testata giornalistaca o di una società di comunicazione. Perché è la competenza che porta alla vera fama, quella a lungo termine.